Cosa accade se uno spettacolo di danza, anziché come oggetto di linguaggio, viene costruito quale esperienza? Quante volte, nell’assistere a uno spettacolo di danza, avremmo voluto poter intervenire? Quante volte la noia, spesso determinata dalla perdita di senso, ci spingerebbe ad abbandonare la sala, o almeno a esprimere il nostro dissenso? E quante volte nel vedere movimento, avremmo voglia di danzare, per “sentire” ciò che viene proposto? Ma l’habitus sociale ci relega sulla sedia di spettatori, inserendoci poi in complessi circuiti di rielaborazioni post-spettacolari legate al tipo di spettacolo, al tipo di pubblico e alla situazione in cui un certo lavoro viene programmato. Questi rapporti di forza riflettono rapporti di potere ben più complessi presenti nella realtà di tutti i giorni. Voglio interrogarmi sulla natura del dispositivo scenico attraversandolo insieme al pubblico in un’ottica diversa, incentrata non sull’interpretazione del simbolo ma su dinamiche esperienziali condivise. Abbiamo creato dei piccoli meccanismi, delle “trappole” sornione, in cui gli spettatori vengono accompagnati dai due performer. Questi piccoli dispositivi sono concepiti in modo tale per cui gli spettatori devono, per far procedere la drammaturgia, intervenire, interrompendo o modificando lo svolgersi della scena... L’estetica strizza l’occhio al film cult Arancia meccanica. L’arancia, il latte, il bianco, il rapporto sadomasochistico dell’artista con il sistema spettacolare e con gli spettatori, fanno da sottofondo allo svolgersi degli esperimenti.